Cassazione - Massimario 2021: DALL'OBBLIGO VACCINALE ALL'OBBLIGO DEL GREEN PASS

28 ottobre 2021 [dal settembre 2021, un mese prima della redazione della relazione della Suprema Corte, Aifa riportava la segnalazione di 608 decessi post vaccinazione]

IX) DALL'OBBLIGO VACCINALE ALL'OBBLIGO DEL GREEN PASS: L'EVOLUZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE E SICUREZZA SUL LAVORO AI TEMPI DELLA PANDEMIA DA COVID-19 (di Milena d’Oriano) 

1. La legislazione dell’emergenza ai tempi del Covid-19. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 

2. La disciplina vigente in tema di misure anti Covid-19. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 

3. Vaccinazione e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 

3.1 La tutela previdenziale nella normativa anti-Covid-19. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 

3.2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro ai tempi della pandemia. . . . . . . . . . . . . 123 

4. L’obbligo vaccinale nel quadro del diritto europeo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126 

5. L’obbligo vaccinale alla luce dei principi costituzionali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 

5.1 Le condizioni di legittimità di un obbligo vaccinale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131 

5.2 L’idoneità del vaccino anti Covid-19 ad una previsione di obbligatorietà. . . . . . . . . . . . 133 

6. L’obbligatorietà della “Certificazione verde Covid-19”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136


SEZIONE II - QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE IX) DALL’OBBLIGO VACCINALE ALL’OBBLIGO DEL GREEN PASS: L’EVOLUZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE E SICUREZZA SUL LAVORO AI TEMPI DELLA PANDEMIA DA COVID-19 (di Milena d’Oriano) SOMMARIO: 1. La legislazione dell’emergenza ai tempi del Covid-19. - 2. La disciplina vigente in tema di misure anti Covid-19. - 3. Vaccinazione e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. - 3.1 La tutela previdenziale nella normativa anti-Covid-19. - 3.2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro ai tempi della pandemia. - 4. L’obbligo vaccinale nel quadro del diritto europeo. - 5. L’obbligo vaccinale alla luce dei principi costituzionali. - 5.1 Le condizioni di legittimità di un obbligo vaccinale. - 5.2 L’idoneità del vaccino anti Covid-19 ad una previsione di obbligatorietà. - 6. L’obbligatorietà della “Certificazione verde Covid-19”. 

1. La legislazione dell’emergenza ai tempi del Covid-19. 

L’improvvisa diffusione del virus Covid-19 ha messo in evidenza l’inadeguatezza ed esiguità della disciplina vigente per fronteggiare la gestione di una pandemia; l’esigenza di colmare repentinamente il vuoto normativo, la drammatica presa di coscienza della gravità del fenomeno, la crescita esponenziale dei contagi, le conseguenze devastanti in termini di perdite di vite umane che hanno sconvolto l’intero paese, hanno reso indispensabile il ricorso alla legislazione d’emergenza. Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri ha adottato la prima delibera con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria nel nostro Paese, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c), del d.lgs. 2 gennaio 2008 n. 1 (Codice della Protezione civile); con il d.l. 24 dicembre 2021 n. 221, conv. dalla l. 18 febbraio n. 11, “in considerazione del rischio sanitario connesso al protrarsi della diffusione degli agenti virali da COVID-19”, si è avuta la sesta proroga dello stato di emergenza fino al 31 marzo 2022. Nella prima fase emergenziale tutti gli atti normativi (decretazione di urgenza, d.P.C.M., ordinanze del Ministero della Salute) si sono concentrati sull’adozione delle misure di contenimento e di distanziamento sociale indispensabili per contrastare i rischi sanitari derivanti dall’epidemia; a questi provvedimenti, che hanno determinato limitazioni anche a diritti e libertà costituzionali, hanno fatto da controcanto le preoccupazioni di autorevoli giuristi, in particolare costituzionalisti, sulle distorsioni arrecate al sistema delle fonti, sulle contorsioni del principio della separazione dei poteri, sui pericoli del proliferare degli interventi normativi regionali, sui rischi di una ingiustificata compressione di valori costituzionali intangibili (si pensi al diritto alla riservatezza, al diritto al lavoro, alla libertà di circolazione). La seconda fase è stata caratterizzata dall’apertura di una massiccia campagna vaccinale della popolazione ed il nuovo tema ha fatto rapidamente irruzione nel dibattito politico e giuridico e, mentre in un primo momento, caratterizzato dalle difficoltà di approvvigionamento e da una limitata disponibilità di dosi, si è discusso di “diritto al vaccino” , con l’attenzione rivolta alla selezione delle priorità ed alla ripartizione delle competenze per la distribuzione e la gestione logistica delle somministrazioni, successivamente sono emerse questioni diverse, incentrate sul difficile rapporto tra “obbligo” ed “onere” di vaccinazione, espressioni di un dovere di solidarietà del singolo verso la collettività, e rifiuto della vaccinazione, espressione del diritto del singolo all’autodeterminazione in materia di salute. Al tema dei vaccini, tra raccomandazione e obbligatorietà, si è aggiunto quello conseguente all’introduzione della “Certificazione verde Covid-19” (di seguito CVC o Green pass), la cui funzione, inizialmente finalizzata ad agevolare la circolazione negli Stati membri dell’Unione, è stata ampliata dalla legislazione interna imponendone il possesso obbligatorio, dapprima solo per l’accesso a determinate attività e servizi, successivamente anche per lo svolgimento delle attività lavorative. La scelta del legislatore di implementare l’introduzione dell’obbligo di vaccinazione e di possesso del Green pass, ormai nella duplice tipologia base o rafforzato, per l’accesso al lavoro pubblico e privato, ha reso centrale anche in ambito lavoristico il tema più generale della legittimità dell’imposizione di tali obblighi, sia sul piano della legislazione interna che europea. 

2. La disciplina vigente in tema di misure anti Covid-19. 

L’intero quadro normativo di riferimento si presenta in continua evoluzione al fine di assicurare un tempestivo ed immediato adeguamento all’andamento della pandemia; in tale contributo ci si limiterà ad un approfondimento delle norme rilevanti in ambito lavorativo relative all’introduzione dell’obbligo vaccinale e di possesso del Green pass. La vaccinazione anti-SARS-CoV-2 è stata oggetto per la prima volta di un atto di normazione primaria con la l. 30 dicembre 2020, n. 178, che all’art. 1, commi 447-449; 452-453; 457-467; 471, contiene, tra l’altro, norme organizzative destinate ad incidere sul diritto alla vaccinazione; ai sensi del comma 457 cit., con il d.m. Ministro della Sanità del 2.1.2021 è stato adottato il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione anti Covid-19, successivamente integrato dalle Raccomandazioni ad interim del 10 marzo 2021. L’art. 4 del d.l. 1 aprile 2021, n. 44, entrato in vigore il 1° aprile 2021, conv. con modif. dalla l. 28 maggio 2021 n. 76, ha introdotto il primo obbligo di vaccinazione per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, posto a carico degli “esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”. L’articolo sancisce l’obbligo vaccinale per le categorie di lavoratori ivi indicate, con un unico motivo di esenzione individuato nell’accertato pericolo per la salute in relazione a specifiche condizioni cliniche attestate dal medico di medicina generale, escludendo implicitamente ipotesi di obiezione di coscienza o di non condivisione scientifica della utilità della vaccinazione. Per la permanenza dell’obbligo era stato fissato uno specifico limite temporale, quello del “completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”, termine oggi prorogato al 15 giugno 2022 (sei mesi dopo il 15 dicembre 2021) a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.l. 26 novembre 2021, n. 172 conv- dalla l. 21 gennaio 2022 n. 3. La misura che fa da contrappeso alla violazione, seppure ne viene espressamente esclusa la natura disciplinare, mantiene una connotazione sanzionatoria in quanto la sospensione, senza retribuzione, dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni, che implicano necessariamente contatti interpersonali o comunque il rischio di diffusione del virus, consegue alla scelta volontaria di sottrarsi alla vaccinazione, ritenuta, ex ante, un requisito essenziale per l’esercizio della professione; nella difficoltà, già solo in astratto, di immaginare per i destinatari dell’obbligo in questione la possibilità di essere addetti a mansioni diverse, l’alternativa è stata riservata ai soli soggetti legittimamente esentati. 

Quanto all’ambito applicativo soggettivo, mentre nessuna difficoltà ha posto la definizione della categoria degli esercenti le professioni sanitarie, da individuarsi alla luce della l. 11 gennaio 2018 n. 3 e del d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, ratificato dalla l. 17 aprile 1956, n. 561, qualche dubbio interpretativo è sorto in riferimento alla seconda categoria, quella degli operatori sanitari; in sede di conversione l’art. 1, comma 1, della l. n. 76 del 2021 ha specificato che “gli operatori di interesse sanitario” sono soltanto quelli “di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43”. Gli artt. 3 e 3-bis del d.l. n. 44 del 2021 costituiscono, invece, due innovative disposizioni in tema di responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti-Covid-19; l’art. 3 esclude la punibilità in relazione sia all’omicidio colposo (art. 589 c.p.) sia alle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) conseguenti alla somministrazione di un vaccino anti-Covid-19 avvenuta durante la campagna vaccinale straordinaria, mentre l’art. 3 bis, inserito in sede di conversione, ha introdotto un vero e proprio “scudo penale“ estendendo la non punibilità, sia in relazione all’omicidio colposo sia in relazione alle lesioni personali colpose, durante la fase di emergenza epidemiologica, anche a tutti i fatti “[…] commessi nell’esercizio di una professione sanitaria“ che trovano la loro causa nella situazione di emergenza e che restano punibili solo in caso di colpa grave. La Certificazione verde Covid-19 è la protagonista dei successivi interventi della legislazione dell’emergenza. L’art. 9 del d.l. 22 aprile 2021 n. 52, conv. con modif. dalla l. 17 giugno 2021 n. 87, ha introdotto la CVC condizionandone il rilascio a tre condizioni: 1) avvenuta vaccinazione contro il SARS-CoV-2; 2) guarigione dall’infezione; 3) test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus; il periodo di validità ha subito diverse variazioni, sempre diversificate a seconda della condizione in base alla quale la certificazione è rilasciata. Anche il campo di applicazione ed i limiti di utilizzo sono stati negli ultimi mesi oggetto di repentine modifiche, tutte in senso ampliativo del testo base di cui al d.l. n. 52 del 2021 che, inizialmente, ne prevedeva una limitata obbligatorietà. Il d.l. 23 luglio 2021 n. 105, conv. con modif. dalla l. 16 settembre 2021 n. 126, con l’inserimento dell’art. 9 bis, ha reso necessario il Green pass per accedere ad una serie di servizi ed attività, mentre il d.l. 6 agosto 2021 n. 111, conv. dalla l. 24 settembre 2021 n. 133, con l’aggiunta degli artt. 9-ter e 9-quater, lo ha imposto al personale scolastico e universitario per l’espletamento dell’attività lavorativa e per l’accesso ad alcuni mezzi di trasporto. L’art. 9-ter, che ha condizionato al possesso del Green pass l’esercizio dell’attività lavorativa per il personale docente, propone un meccanismo molto simile a quello di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021; la mancanza della CVC equivale ad assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso senza diritto a retribuzione, ferma l’applicabilità della sanzione amministrativa; la sua efficacia era stata limitata nel tempo, specificamente dal 1° settembre al 31 dicembre 2021, e si è prevista, in aggiunta alla sospensione, la comminazione di una sanzione amministrativa. Il d.l. 21 settembre 2021 n. 127, conv. con modif. dalla l. 19 novembre 2021 n. 165, sempre con la stessa tecnica additiva rispetto alla disciplina di cui al d.l. n. 52 del 2021, ha reso obbligatorio, a decorrere dal 15 ottobre 2021, il possesso della CVC per l’accesso nei luoghi di lavoro pubblici (art. 9-quinques) e privati (art. 9-septies), da parte dei lavoratori in forza presso aziende, enti pubblici e che svolgono attività di formazione e volontariato; l’obbligo riguarda inoltre il personale di Autorità indipendenti, Consob, Covip, Banca d’Italia, enti pubblici economici, organi di rilevanza costituzionale e i titolari di cariche elettive o di cariche istituzionali di vertice. I datori di lavoro sono stati chiamati a definire le modalità operative per l’organizzazione delle verifiche, anche a campione, da effettuare al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro e, come era stato già previsto per il personale scolastico, il personale non in possesso della CVC è considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della stessa e, comunque, non oltre il termine attualmente fissato al 31 marzo 2022, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. c) del d.l. 7 gennaio 2022 n. 1, in attesa di conversione, senza conseguenze disciplinari e senza sospensione, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro ma non alla retribuzione; l’obbligo è stato imposto anche a magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, e ai componenti delle commissioni tributarie per l’accesso agli uffici giudiziari, ma non era stato esteso ad avvocati, consulenti, periti e altri ausiliari del magistrato, testimoni e parti del processo (art. 9 sexies, norma successivamente modificata dal d.l. n. 1 del 2022 su cui infra.) In particolare l’art. 9-sexies, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza, ha previsto dal 15 ottobre 2021 e fino al (oggi 31 marzo 2022), termine di cessazione dello stato di emergenza, l’obbligo di possesso e di esibizione del Green pass base, per l’accesso agli uffici giudiziari ove svolgono la loro attività lavorativa, per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari nonché i componenti delle commissioni tributarie, e ove compatibile anche per magistrati onorari e giudici popolari, e che l’assenza dall’ufficio conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde COVID-19 è considerata assenza ingiustificata, senza retribuzione, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. L’accesso in violazione di tale obbligo costituisce illecito disciplinare, da sanzionare secondo i rispettivi ordinamenti, oltre ad essere punito con una sanzione amministrativa da 600 a 1500 euro, con obbligo di verifica, secondo le modalità previste all’art. 9-quinquies dello stesso decreto, a carico del responsabile della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, individuato per la magistratura ordinaria nel Procuratore generale presso la Corte di appello. Solo per le imprese con meno di quindici dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, il datore di lavoro poteva sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni, rinnovabili per una sola volta, e non oltre il predetto termine del 31 dicembre 2021 (norma successivamente modificata dal d.l. n. 1 del 2022 su cui infra). Con il d.P.C.M. 12 ottobre 2021 sono state fornite ai datori di lavoro pubblici e privati le indicazioni sulle modalità di controllo del possesso delle Certificazioni verdi Covid-19 e sono stati potenziati gli strumenti informatici per la verifica quotidiana e automatizzata delle certificazioni. Il d.l. n. 172 del 2021 ha introdotto il “super Green pass” o Green pass rafforzato, entrato in vigore il 6 dicembre, valido solo per coloro che sono vaccinati o guariti dal Covid-19, ma non per chi è in possesso di un tampone negativo, sia esso antigenico o molecolare. Il super Green pass, che inizialmente doveva essere esibito solo per accedere a ristoranti e bar al chiuso o per partecipare a spettacoli ed eventi sportivi, con il d.l. n. 221 del 2021 è stato reso obbligatorio per molteplici attività e servizi, oltre a subire una riduzione del periodo di vigenza da nove a sei mesi. Per i luoghi di lavoro il Green pass base, che si ottiene anche con il tampone negativo, continua ad essere sufficiente, salvo che per quelle categorie di lavoratori per le quali, a partire dal 15 dicembre 2021, l’art. 2 del d.l. n. 221 del 2021 ha introdotto l’obbligo vaccinale. In particolare l’art. 2 del d.l. n. 221 cit., con l’aggiunta dell’art. 4-ter al d.l. n. 44 del 2021 ha esteso l’obbligo vaccinale al personale amministrativo della sanità, ai docenti e personale amministrativo della scuola, a militari, forze di polizia (compresa la polizia penitenziaria), personale del soccorso pubblico. Un ennesimo inasprimento delle misure di prevenzione è stato disposto dal d.l. 7 gennaio 2022 n. 1, conv dalla l. 4 marzo n. 18, vigente dall’8 gennaio 2022, che all’art. 1 ha aggiunto al d.l. n. 44 del 2021, conv., con modif., dalla l. n. 76 del 2021, le seguenti disposizioni: - art. 4-quater che, al comma 1 ha esteso l’obbligo di vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 agli ultra cinquantenni, dalla data di entrata in vigore della disposizione e fino al 15 giugno 2022. Il comma 2 dello stesso articolo prevede l’esenzione o il differimento dalla vaccinazione in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale dell’assistito o dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2, ed inoltre il differimento della vaccinazione fino alla prima data utile prevista sulla base delle circolari del Ministero della salute per i soggetti che abbiano contratto l’infezione. L’obbligo vaccinale opera anche per coloro che compiono il cinquantesimo anno di età in data successiva a quella di entrata in vigore della norma, sino al termine del 15 giugno 2022, ed è punito in caso di violazione con una sanzione amministrativa di 100 euro; - art. 4-quinquies che al comma 1, a decorrere dal 15 febbraio 2022, ha esteso ai lavoratori pubblici e privati over 50, ai quali già si applica l’obbligo vaccinale di cui all’art. 4-quater valevole per la generalità dei cittadini, l’obbligo di possedere ed esibire il super Green pass, (certificazione verde COVID-19 di vaccinazione o di guarigione di cui all’articolo 9, comma 2, lettere a), b) e c-bis) del decreto-legge n. 52 del 2021), per l’accesso ai luoghi di lavoro nell’ambito del territorio nazionale. Il comma 2 obbliga alla verifica del possesso delle suddette certificazioni i datori di lavoro pubblici e privati e i responsabili della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, individuati secondo le modalità già previste dal d.l. n. 52 del 2021. I lavoratori soggetti all’obbligo del super Green pass, a cui il comma 5 vieta l’accesso ai luoghi di lavoro in violazione di tale obbligo, nel caso in cui comunichino di non essere in possesso della suddetta certificazione, o comunque ne risultino privi al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro, “al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, fino alla presentazione della predetta certificazione, e comunque non oltre il 15 giugno 2022. Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati.” Per la violazione del divieto di accesso al lavoro senza Green pass rafforzato è stata prevista una autonoma sanzione amministrativa tra 600 e 1.500 euro, salvo le ulteriori conseguenze disciplinari. Solo per i soggetti per i quali opera l’esenzione o il differimento della vaccinazione ai sensi del comma 2, il comma 7 prevede l’assegnazione “a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”; - art. 4-sexies che ha introdotto la sanzione pecuniaria di cento euro per l’inosservanza dell’obbligo vaccinale di cui all’articolo 4-quater e stabilito le modalità per l’irrogazione. L’art. 2 del d.l. n. 1 del 2022, con l’inserimento del comma 1 bis, all’art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 221 del 2021, ha esteso l’obbligo vaccinale, già operante dal 15 dicembre 2021 e per i successivi sei mesi, per il personale amministrativo della sanità, docenti e personale amministrativo della scuola, militari, forze di polizia (compresa la polizia penitenziaria), personale del soccorso pubblico, senza limiti d’età anche al personale universitario, delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica e degli istituti tecnici superiori a decorrere dal 1 febbraio 2022 e sino al 15 giugno 2022. L’art. 3 del d.l. n. 1 del 2022, al comma 1, con l’aggiunta del comma 1-bis all’art. 9 bis del d.l. n. 52 del 2021, ha esteso l’obbligo del Green pass base, sino al 31 marzo 2022, tra l’altro, anche per l’accesso ai pubblici uffici a decorrere dal 1 febbraio 2022 o da quella data diversa da individuarsi con successivo d.P.C.M., mentre al comma 2, lett. b), con le modifiche apportate ai commi 4 e 8 dell’art. 9 sexies del d.l. n. 52 del 2021, ha esteso l’obbligo del Green pass base, anche a difensori, consulenti, periti ed altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, con la sola eccezione per testimoni e parti del processo, e, con l’aggiunta del comma 8 bis, ha previsto che l’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde COVID-19 non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento. Solo per le imprese, e senza più alcun limite in base al numero di dipendenti, ai sensi del comma 2 lett. c) dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2022, di modifica del comma 7 dell’art. 9-septies del d.l. n. 52 del 2021, il datore di lavoro, dopo cinque giorni di assenza ingiustificata, può disporre la sospensione del lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni lavorativi, rinnovabili fino al predetto termine del 31 marzo 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro per il lavoratore sospeso. 

3. Vaccinazione e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

I recenti interventi normativi in tema di obbligo vaccinale e di Green pass nei contesti lavorativi hanno posto diverse questioni che da un lato si inseriscono nel tema generale della compatibilità di tali misure con il sistema delle libertà e dei principi costituzionali, dall’altro attengono a profili più tipicamente lavoristici, relativi all’ambito di applicazione, all’inidoneità alle mansioni in caso di inosservanza, alle conseguenze delle violazioni sul rapporto di lavoro; la possibilità che un’infezione da SARS-CoV-2 venga contratta sul luogo di lavoro rileva poi sia sotto il profilo dei criteri di operatività della copertura assicurativa INAIL sia sul piano della responsabilità datoriale. 

3.1 La tutela previdenziale nella normativa anti-Covid-19. 

Nelle ipotesi in cui un contagio da Covid-19 avvenga in occasione dello svolgimento del lavoro, il lavoratore ha diritto alla copertura assicurativa. A tali fini è intervenuta una norma specifica, l’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, conv. dalla l. n. 27 del 2020 , secondo cui l’infezione da Coronavirus, contratta in “occasione di lavoro”, costituisce un infortunio protetto dall’assicurazione obbligatoria per cui l’INAIL è obbligato ad erogare le prestazioni dovute ai soggetti protetti a seconda dell’evento subito (lesione o decesso) e delle conseguenze riportate dal lavoratore, sia esso pubblico o privato. Coloro che hanno contratto il virus sul lavoro hanno diritto all’indennizzo per il periodo di inabilità temporanea assoluta e all’indennizzo in capitale o alla rendita per i postumi permanenti; in caso di morte, ai loro familiari spetterà poi la rendita ai superstiti; la norma, oltre a riconoscere una protezione economica di natura sociale per il danno alla salute ed alla capacità lavorativa dei lavoratori, nonché alle loro famiglie per la perdita del reddito nell’ipotesi del decesso, prevede che non vi sia alcun onere aggiuntivo per le imprese in termini di aumento di premi assicurativi. 

In linea con una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata, la disposizione chiarisce che, in caso di infezione da Coronavirus, si applica la protezione più ampia garantita dall’art. 2 per infortunio (subito “in occasione di lavoro”), anche in itinere, e non quella prevista dall’art. 3 per la malattia professionale, consentendo alla copertura assicurativa di operare non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa, ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione. La differenza tra i due tipi di evento si fonda sulla concentrazione e violenza del fattore causale: la “causa virulenta” (l’azione di fattori microbici o virali) viene considerata “causa violenta”, per cui l’evento è protetto come infortunio sul lavoro e non come malattia; la giurisprudenza ha affermato da tempo che costituisce causa violenta (e quindi infortunio) anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione. Trattandosi di infortunio, e non di malattia, è ammessa la tutela dell’infortunio in itinere, e quindi di chi contrae la malattia andando e tornando dal lavoro, inoltre l’indennizzo dell’inabilità temporanea viene riconosciuto anche per il periodo in cui il lavoratore si trova in quarantena o in isolamento domiciliare per fini precauzionali in conseguenza della malattia da Coronavirus, immediatamente dopo la guarigione o per l’intervenuto accertamento della positività al virus, trattandosi di situazioni di impedimento assoluto al lavoro che, come quelle derivanti da altri stati patologici vanno tutelati nel caso in cui siano state occasionate dal lavoro. Con l’istruzione operativa del 17 marzo 2020 l’INAIL nel ribadire che la malattia da Coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, va tutelata come infortunio sul lavoro, ha precisato che sono ammessi alla tutela gli operatori sanitari che risultino positivi al test di conferma del contagio, puntualizzando che per essi il nesso causale con le mansioni svolte si deve comunque presumere, tanto che la tutela assicurativa va estesa anche ai casi in cui l’identificazione delle specifiche cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica; Nelle istruzioni operative del 1° marzo del 2021 l’INAIL è intervenuto sul tema del diritto alla tutela assicurativa del lavoratore (nella fattispecie si trattava di infermieri) in caso di rifiuto della vaccinazione; l’Istituto ha ritenuto di riconoscerla anche al soggetto che abbia contratto il virus sul lavoro, e precedentemente rifiutato di vaccinarsi, sul presupposto che la colpa del lavoratore nella causazione dell’infortunio non esclude la tutela, e che il comportamento degli infermieri che rifiutano il vaccino non può costituire rischio elettivo, per mancanza del carattere della arbitrarietà. In questa circolare si ribadisce la diversità funzionale e strutturale che esiste tra responsabilità civile e copertura assicurativa, due regimi riparatori che hanno presupposti differenti, l’uno fondato sul bisogno del lavoratore e l’altro sulla responsabilità risarcitoria del datore; per accedere alla tutela ampia dell’infortunio sul lavoro occorre il nesso funzionale tra il fatto ed il lavoro, risultando all’uopo sufficiente che il contagio abbia un collegamento funzionale con l’attività di lavoro, senza che rilevi la colpa del lavoratore, che invece potrebbe giustificare l’esclusione della responsabilità civile del datore di lavoro. In ambito Inail la tutela è esclusa solo in presenza di rischio elettivo (ossia del rischio estraneo all’attività di lavoro), ed inoltre in caso di dolo (inteso come dolo intenzionale, dell’evento e come autolesionismo e simulazione volontaria, come risulta dagli artt. 11, comma 3, 64 e 65 TU 1124/1965) e, a differenza della responsabilità civile, il lavoratore, salvo il dolo intenzionale dell’evento, è tutelato anche in caso di violazione volontaria e consapevole delle misure di protezione adottate dal datore, come pure in caso di comportamento abnorme (imprevedibile) rispetto alla ordinaria esecuzione della mansione ed alla prassi lavorativa. Nella nozione di rischio elettivo rientra solo quello che non ha alcun nesso con il lavoro, mentre qui si è in presenza pur sempre di lavoratori che abbiano contratto il virus per essere rimasti al lavoro, nell’ambiente di lavoro ed in connessione con lo stesso (per poter reclamare la tutela assicurativa). Né può parlarsi di rischio elettivo in caso di mero aggravamento del rischio da parte del lavoratore, ancorché imputabile a colpa, sia essa lieve o grave; il comportamento colposo del lavoratore potrebbe influire sulla responsabilità civile del datore, nel senso di escluderla o limitarla, ed esclude o limita anche il corrispondente diritto dell’INAIL all’azione di regresso che opera nei limiti della responsabilità civile, ma non va confuso col rischio elettivo. Ne consegue che la protezione dell’INAIL va accordata anche in ipotesi di rifiuto del vaccino e di volontaria inottemperanza all’ordine di allontanamento del lavoratore che rimanga a lavorare nell’ambiente di lavoro dove contragga il virus. 

3.2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro ai tempi della pandemia. 

La completezza ed esaustività del sistema vigente per la protezione dei luoghi di lavoro è stato messo a dura prova dall’imprevedibilità dell’emergenza pandemica che ha inciso pesantemente sull’organizzazione dell’attività lavorativa. L’incremento dello smart working ha reso quanto mai impellente l’implementazione della disciplina di questa forma di lavoro che da eccezione si è trasformata in regola; la diffusione dell’e-commerce e dell’utilizzo delle piattaforme digitali ha svelato in tutta la sua drammaticità l’esistenza di intere categorie di lavoratori invisibili, pensiamo ai magazzinieri di Amazon o ai riders, accomunati da una totale assenza di tutele e protezione anche dei più elementari diritti; per tutti quei lavoratori che non si sono mai fermati, garantendo in presenza il mantenimento dei servizi essenziali, si è posta la necessità di assicurare un più elevato livello di protezione della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. In merito alla sicurezza dei luoghi di lavoro, all’alba della pandemia in data 14 marzo 2020 è stato sottoscritto fra il Governo e le parti sociali un protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid19 negli ambienti di lavoro, ulteriormente integrato il 24 aprile 2020 e quindi aggiornato con altro protocollo del 6 aprile 2021. Diversi i d.P.C.M. che sono stati emanati in attuazione del d.l. n. 19 del 2020, in base all’evoluzione dell’emergenza sanitaria; il d.P.C.M. del 10 aprile 2020 all’art. 2, comma 10, aveva disposto che le imprese le cui attività non sono sospese rispettino “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”, mentre all’art. 1, lett. ii), con riferimento alle attività professionali, che proseguono, raccomandava, tra l’altro, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione, “laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento”, di strumenti di protezione individuale, e di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro. Il d.P.C.M. del 26 aprile 2020 conteneva analoghe previsioni rispettivamente, all’art. 2, comma 6, con riferimento al Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 per le attività produttive, di cui è stato anche disposto l’inserimento come allegato 6, ed all’art. 1, lett. 11), punto c), per le attività professionali.

La dottrina ha convenuto che i provvedimenti innanzi menzionati abbiano assicurano a tali Protocolli una sorta di copertura legislativa e che in ogni caso le misure ivi previste, rispecchiando sostanzialmente le raccomandazioni precauzionali fornite dall’OMS, si sono integrate perfettamente con i principi e i precetti propri del sistema di prevenzione delineato dal d.lgs. n. 81 del 2008 e dall’art. 2087 c.c.. Sebbene l’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, che ha qualificato l’infezione da Covid19 contratta "in occasione di lavoro" infortunio sul lavoro, avesse una esclusiva valenza sul piano dell’assicurazione sociale, i datori di lavoro hanno temuto che la norma avesse accentuato il loro rischio di incorrere in responsabilità civile e penale; del resto in ambito penalistico la violazione delle norme antinfortunistiche, ed anche delle regole precauzionali innominate imposte dall’art. 2087 c.c., è sufficiente a configurare la colpa, specifica e generica, richiesta per tutte le fattispecie di reato che vengono normalmente contestate in caso di violazione delle norme in tema di sicurezza sul lavoro. A seguito di pressanti richieste del mondo imprenditoriale, il legislatore ha introdotto l’invocato "scudo" e con l’art. 29-bis della l. 5 giugno 2020, n. 40, di conversione del d.l. n. 23 del 2020, ha stabilito che i datori di lavoro adempiono all’obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori previsto dall’art. 2087 c.c. mediante l’applicazione del Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 dal Governo e dalle Parti Sociali e successive modifiche o integrazioni. Questo intervento normativo ha posto problemi sistematici in quanto, ancorando l’adempimento agli obblighi di protezione e sicurezza imposti dall’art. 2087 c.c. al rispetto di specifiche disposizioni, per giunta adottate a mezzo protocolli tra le parti sociali, sembrerebbe porsi in antitesi con la funzione dinamica della norma e la sua ratio di norma aperta. L’impossibilità, e forse l’inutilità, di una cristallizzazione ad un determinato momento storico delle regole precauzionali si è immediatamente manifestata all’esito dell’apertura della campagna vaccinale, in quanto, sebbene il tema dei vaccini non fosse stato affrontato da nessuno dei Protocolli citati, lo stesso ha impattato in modo significativo sugli obblighi di prevenzione e protezione del datore di lavoro e sugli obblighi/oneri del lavoratore, come poi dimostrato dalla produzione normativa immediatamente successiva. Il problema è rimasto aperto, per le categorie di lavoratori non sottoposte ad obbligo vaccinale o di super Green pass, anche a seguito dell’introduzione dell’obbligo del Green pass base per l’accesso al lavoro pubblico o privato, per tutti quei soggetti che abbiano optato per il rilascio a seguito di diagnostica negativa. Lo stato delle conoscenze scientifiche del momento in tema di vaccinazione va necessariamente a condizionare, ex art. 2087 c.c., l’adempimento degli obblighi di sicurezza del datore di lavoro, oltre ad avere ricadute dirette sul rapporto di lavoro, in conseguenza delle disposizioni specifiche del d.lgs. n. 81 del 2008. Quanto al d.lgs. n. 81 del 2008, l’inserimento del virus SARS-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici del gruppo 3 ad opera della direttiva della Commissione UE 2020/739 ha avuto una ricaduta immediata sulle disposizioni del Titolo X del d.lgs. n. 81 del 2008 che si applicano, per espressa previsione dell’art. 266, comma 1, a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad un agente biologico. Individuare quali siano le attività lavorative a cui trova applicazione il Titolo X assume particolare rilievo in quanto in esso vi è inserito l’art. 279 il quale, dopo aver previsto al comma 1 che, ove l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità, i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, al comma 2 stabilisce che il “datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”; la norma precisa che deve trattarsi di vaccini efficaci, ma non (necessariamente) obbligatori e quindi anche solo raccomandati. Secondo l’art. 42 del d.lgs. cit. il datore di lavoro è tenuto ad attuare le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. In sintesi, tutti i lavoratori esposti ad agenti biologici sono soggetti alla sorveglianza sanitaria del medico competente (ex art. 41) quando il risultato della valutazione del rischio ne rilevi la necessità; in tal caso, su parere del medico competente, il datore di lavoro adotta le misure protettive speciali rappresentate, tra le altre, dalla “messa a disposizione di vaccini efficaci”, dall’adibizione del dipendente ritenuto inidoneo, “ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”, (ex art. 42) o, in subordine, ove non sia possibile la collocazione in mansioni idonee anche inferiori, “dall’allontanamento temporaneo dall’azienda” (ex art. 279). L’esposizione ad agenti biologici rischiosi per la salute è dunque uno dei presupposti per l’adozione delle misure individuate di volta in volta dal medico competente. Altra norma da valorizzare è l’art. 20 del d.lgs. n. 81 del 2008 che pone a carico del lavoratore un dovere/onere di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, di contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, e di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale. Quanto all’operatività della clausola generale di protezione derivante dall’art. 2087 c.c., è indubbio che, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, a prescindere dalla obbligatorietà della vaccinazione nei contesti lavorativi, la circostanza che un lavoratore sia vaccinato o meno non può non incidere sugli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza in quanto, in presenza di prestazioni lavorative cd. di contatto, il datore di lavoro deve tenere conto di tale circostanza. Nella materia lavoristica il dibattito dottrinale sulla possibilità di una estensione generalizzata dell’obbligatorietà della vaccinazione o del possesso della “Certificazione verde Covid-19”, ha visto inizialmente confrontarsi coloro che hanno sostenuto che tale obbligo fosse insito nel sistema, trovando le sue fonti principalmente nell’art. 2087 c.c. e nel TU n. 81 del 2008, coloro che hanno invece ritenuto che, in presenza di un trattamento sanitario, per la sua configurabilità fosse indispensabile un intervento normativo specifico alla luce della riserva di legge di cui all’art. 32, comma 2, Cost., e infine coloro che si sono opposti alla configurabilità dell’obbligo; altrettanto animato il dibattito sulle conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro del rifiuto del lavoratore di sottoporsi a vaccinazione, se di rilievo disciplinare o se incidenti sul piano meramente oggettivo della idoneità alle mansioni. L’adozione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 in ambito sanitario, e delle norme successive che hanno introdotto l’obbligo vaccinale per diverse categorie di lavoratori, fanno propendere per la necessità di una specifica legge ai fini dell’imposizione di un obbligo vaccinale in ambiente di lavoro. Pur in assenza di un obbligo vaccinale, per tutte le categorie di lavoratori che si trovano in posizioni analoghe in termini di esposizione a rischio personale e altrui, non può però non assumere rilievo la valutazione della idoneità alla mansione e delle conseguenze che la libertà di non vaccinarsi possa produrre sul rapporto di lavoro; come è noto il contenuto dell’obbligo datoriale di sicurezza è per sua natura dinamico, dovendosi determinare in ragione del progresso scientifico e tecnologico (la “tecnica” di cui parla l’art. 2087 c.c.), e il vaccino costituisce espressione di tale progresso; se si conviene sul fatto che il rischio è quantitativamente e qualitativamente diverso per i lavoratori vaccinati rispetto ai lavoratori non vaccinati, ne discende che le misure di prevenzione e di protezione, nonché l’adozione di dispositivi di protezione individuali, dovrebbero essere differenziati per l’una e l’altra categoria di lavoratori, dal momento che i lavoratori non vaccinati necessitano di una tutela più intensa rispetto ai vaccinati, giacché non adeguatamente immunizzati contro le infezioni da virus. Pertanto, mentre per le professioni oggetto di obbligo vi è stata una qualificazione ope legis di incidenza della vaccinazione sulla idoneità delle mansioni, ed anche delle conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di omessa vaccinazione, per le altre attività si dovrebbe rimettere, caso per caso, al documento di valutazione dei rischi e alle determinazioni del medico competente in sede di sorveglianza sanitaria, la verifica in concreto se la vaccinazione debba e possa costituire un requisito essenziale di idoneità alle mansioni. In caso di valutazione positiva, da compiersi solo sul piano oggettivo, tenuto conto della specificità delle mansioni svolte, a fronte del persistente rifiuto del lavoratore di vaccinarsi, la conseguenza non potrebbe che essere, analogamente a quanto previsto per i soggetti sottoposti ad obbligo, l’allontanamento temporaneo del lavoratore dalle mansioni per le quali risulta inidoneo, ed in assenza della possibilità di assegnazione ad altre mansioni la sospensione senza retribuzione, con una incidenza dunque sul piano oggettivo e di durata temporanea, senza alcuno spazio per contestazioni di tipo disciplinare; sarebbe infatti illogico prevedere per lavoratori non soggetti ad obbligo di vaccinazione delle conseguenze più gravi di quelle previste per i lavoratori che vi sono invece obbligati per legge. 

4. L’obbligo vaccinale nel quadro del diritto europeo. 

La materia degli obblighi vaccinali non costituisce in sé oggetto di una disciplina dell’Unione, e rispetto ad essa ogni Stato mantiene nell’ordinamento interno ampio margine di autonomia, come è agevolmente verificabile dall’assenza di uniformità tra gli Stati membri in merito alla previsione di vaccinazioni obbligatorie; il tema della vaccinazione va invece intersecarsi con diversi settori di competenza unionale. La direttiva della Commissione 2020/739/UE del 3 giugno 2020, che ha modificato l’allegato III della direttiva 2000/54/CE – già modificato dalla direttiva della Commissione 2019/1833/UE del 24 ottobre 2019 – ha inserito il virus SARS-CoV-2 nel gruppo 3 dell’elenco degli agenti biologici, di cui è noto che possono causare malattie infettive nell’uomo; tale decisione ha avuto una immediata ricaduta nell’ordinamento interno ed in particolare sulle disposizioni del Titolo X del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che si applicano, per espressa previsione dell’art. 266, comma 1, a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad un agente biologico. Quanto ai problemi di compatibilità con le norme dell’Unione dell’introduzione in uno Stato membro dell’obbligo vaccinale anti Covid-19, si è paventato un possibile contrasto con l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea (CDUEF), norma che riconosce il diritto alla tutela dell’integrità della persona. In riferimento a tale possibilità si può osservare che la cd. Carta di Nizza trova applicazione solo relativamente a materie di competenza dell’Unione europea e non come una Carta dei diritti con efficacia generale, per qualsiasi tipo di rapporto e di disciplina.

Secondo la costante giurisprudenza della CGUE, i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse; ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, ma abbia rilievo esclusivamente interno, la Corte UE non è competente e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza. Anche la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato, a partire dalla sentenza n. 80 del 2011 sino alla sentenza n. 194 del 2018, che “A norma del suo art. 51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione” (sentenza n. 63 del 2016 e nello stesso senso sentenza n. 111 del 2017); la Corte di cassazione , dal suo canto, si è sempre allineata alle posizioni delle due Corti, affermando l’irrilevanza della Carta dei diritti fondamentali nelle materie non regolate dal diritto UE, tanto al fine di respingere sia istanze di rinvio pregiudiziale, per evidente irrilevanza del richiamo rispetto alla controversia, sia richieste di disapplicazione di norma interne, per presunta contrarietà a diritti e principi riconosciuti nella Carta. Non rientrando la materia degli obblighi vaccinali tra quelle di competenza dell’Unione, va escluso che l’art. 3 CDFUE sia una norma che possa da sola legittimare la disapplicazione di una normativa interna che imponga un obbligo di vaccinazione; costituiscono invece materie di competenza UE la libera circolazione tra gli Stati membri nonché il divieto di discriminazione in ambiente lavorativo, su cui potrebbe indirettamente incidere l’imposizione dell’obbligo, ma in tal caso la verifica andrebbe fatta con riferimento a questi specifici contesti, ed in applicazione della normativa secondaria dell’Unione che li disciplina. In tema di libera circolazione, campo di elezione del diritto europeo in quanto pilastro fondamentale nel processo di integrazione e per l’esercizio di altri diritti fondamentali, è intervenuto il Regolamento 2021/953/UE, approvato dal Parlamento e dal Consiglio il 14 giugno 2021, che, al solo fine di agevolare la libera circolazione sicura dei cittadini nell’UE durante la pandemia, ha introdotto il certificato COVID digitale quale strumento di facilitazione della libertà di spostarsi entro lo spazio europeo. Al considerando 6 del Regolamento 2021/953/UE il legislatore dell’Unione ricorda che gli Stati membri possono limitare il diritto fondamentale alla libera circolazione per motivi di sanità pubblica e che tutte le restrizioni alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione, attuate per limitare la diffusione del SARS-CoV-2, dovrebbero basarsi su motivi specifici e limitati di interesse pubblico, quale è la tutela della salute pubblica, come sottolineato nella Raccomandazione 2020/1475/UE, ed essere applicate conformemente ai principi generali del diritto dell’Unione, quali la proporzionalità e la non discriminazione. Con riferimento alla discriminazione, il considerando n. 36 dello stesso Regolamento chiarisce che, essendo necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, o perché non rientrano nel gruppo di soggetti vaccinabili, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o “hanno scelto di non essere vaccinate” “il possesso di un certificato di vaccinazione, o di un certificato di vaccinazione che attesti l’uso di uno specifico vaccino anti Covid-19, non dovrebbe costituire una condizione preliminare per l’esercizio del diritto di libera circolazione o per l’utilizzo di servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman, traghetti o qualsiasi altro mezzo di trasporto. Inoltre, il presente regolamento non può essere interpretato nel senso che istituisce un diritto o un obbligo a essere vaccinati” Nella prima versione in lingua italiana del Regolamento, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 15 giugno 2021 serie L 211/1, era stato omesso l’inciso “hanno scelto di non essere vaccinate”; segnalata l’anomalia, non senza polemiche, la rettifica è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 5 luglio 2021 serie L 236/6. Posto tale dato normativo, ed a prescindere dall’efficacia o meno di tale rettifica messa in dubbio per il mancato consolidamento con una nuova pubblicazione del testo rettificato, non sembra che da tale considerando possa desumersi l’introduzione di un nuovo fattore di discriminazione protetto, quale “la scelta di non essere vaccinati”. A parte il rilievo che l’indicazione in questione è contenuta in un “considerando” che, come chiarito dalla Guida pratica alla redazione degli atti normativi europei, hanno la funzione di motivare le norme contenute nei testi legislativi ma, a differenza degli articoli, “non contengono enunciati di carattere normativo” - come evidente dall’utilizzo nello stesso testo del condizionale “dovrebbe” che non ha evidentemente natura precettiva-, lo stesso articolato precisa che non rientra nell’oggetto del Regolamento l’introduzione di un diritto o obbligo ad essere vaccinati e che la discriminazione determinata dal possesso o meno di una certificazione di vaccinazione va evitata “per l’esercizio del diritto di libera circolazione o per l’utilizzo di servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman, traghetti o qualsiasi altro mezzo di trasporto.” Così circoscritto l’ambito applicativo della previsione, resta fermo che nulla impedisce agli Stati membri di introdurre, per ragioni di sanità pubblica, condizioni più restrittive, che abbiano una finalità legittima e siano con tale finalità proporzionate, in ambiti che, in quanto non sono oggetto di disciplina unionale, rientrano nella competenza dei singoli Stati; ne consegue che una norma che introduca l’obbligo vaccinale anti Covid-19 nell’ordinamento nazionale rispettando tali criteri non potrebbe mai essere disapplicata per contrasto con il considerando 36 del Regolamento UE 2021/953. Da escludere anche che l’introduzione dell’obbligo vaccinale in ambito lavorativo possa costituire ex se una discriminazione “per convinzioni personali” di coloro che sono per scelta contrari alla vaccinazione, come tale vietata dall’art. 1 del d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216 che ha dato attuazione alla direttiva antidiscriminatoria 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro dei lavoratori dipendenti e autonomi. Ai sensi dell’art. 3, comma 3, dello stesso decreto (di attuazione dell’art. 4 comma 1 della direttiva 2000/78/CE), nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, non sussiste discriminazione quando le differenze di trattamento sono dovute a caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa, per la natura stessa dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata. Ad esempio, nel caso del personale sanitario, difficile dubitare che l’obbligo di vaccinazione anti Covid-19, nell’attuale contesto pandemico, non costituisca un requisito essenziale per quella specifica attività lavorativa, introdotto per una finalità legittima, quale la tutela della salute dei pazienti ed anche della salute e della sicurezza delle condizioni di lavoro degli stessi lavoratori, e che tale misura non risulti ragionevole e proporzionata, in quanto di natura temporanea oltre che sanzionata, in caso di inadempimento, con una mera sospensione del rapporto, coerente con l’essenzialità e temporaneità del requisito. Argomenti favorevoli alla legittimità degli obblighi di vaccinazione si rinvengono anche nella giurisprudenza della Corte EDU; la sentenza Grande Camera 8 aprile 2021 ha sancito la compatibilità con l’art. 8 della Convenzione dell’obbligo vaccinale infantile (contro nove malattie, tra cui poliomielite, tetano ed epatite B) previsto dall’ordinamento della Repubblica Ceca quale condizione per l’ammissione al sistema educativo prescolare. 

La Corte EDU afferma che costituisce un obbiettivo legittimo per l’ingerenza nella vita privata che l’obbligo vaccinale comporta, la protezione della salute collettiva e in particolare di quella di chi si trovi in uno stato di particolare vulnerabilità (par. 272); quanto al requisito della necessità della misura, la Corte afferma che il bisogno sociale deriva dalla consapevolezza che la vaccinazione infantile è una misura chiave nelle politiche di salute pubblica (par. 281); per la rilevanza e sufficienza delle ragioni fa riferimento alla rispondenza della vaccinazione obbligatoria al miglior interesse dei bambini (par. 288); per la proporzionalità, alle garanzie specifiche del procedimento di somministrazione, che è preceduto da un’anamnesi individuale, e alla previsione di un meccanismo compensativo per gli eventuali danni. Motivazioni perfettamente sovrapponibili a quelle utilizzate dalla nostra Corte costituzionale per giustificare analoghi obblighi. In riferimento alla vaccinazione contro il Covid-19, con la pronuncia 24 agosto 2021, n. 41950/21, in un caso in cui si discuteva della legittimità dell’obbligo imposto dalla legge francese n. 2021-1040 del 5 agosto 2021, agli impiegati pubblici e, segnatamente, ai 672 vigili del fuoco ricorrenti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto la richiesta di applicazione di misure ad interim (art. 39, Reg. esec.), ritenendo che non vi fosse alcun fumus di violazione delle norme convenzionali evocate (artt. 2 ed 8, che tutelano il diritto alla vita ed il diritto alla vita privata e familiare). Secondo la Corte non vi erano le condizioni per concedere le misure urgenti richieste (“sospendere l’obbligo vaccinale” o in alternativa “sospendere l’impossibilità di lavorare per chi non è vaccinato” oppure “non sospendere il pagamento del salario per i non vaccinati”), in quanto la situazione dei vigili del fuoco non ricadeva tra i casi che richiedono un’azione immediata. Il Consiglio d’Europa ha adottato, in materia, due risoluzioni, atti che non hanno valore vincolante, ma che contengono una serie di raccomandazioni e consigli rivolti agli Stati firmatari della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo in relazione alla distribuzione e alla somministrazione dei vaccini contro il Covid-19. Nella Risoluzione n. 2361 del 27 gennaio 2021 dell’Assemblea Parlamentare (Vaccini contro il Covid-19: considerazioni etiche, giuridiche e pratiche), si suggerisce una campagna vaccinale non obbligatoria e di “garantire che nessuno sia discriminato per non essere vaccinato, a causa di potenziali rischi per la salute o per non voler essere vaccinato”, mentre nella Risoluzione n. 2383 del 23 giugno 2021 si afferma che “Se i covid pass vengono utilizzati per giustificare l’applicazione di un trattamento preferenziale, possono avere un impatto sui diritti e sulle libertà garantite” e che “Tale trattamento privilegiato può costituire una discriminazione illegittima ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione se è privo di giustificazione oggettiva e ragionevole”. Sebbene tali indicazioni siamo state lette come una manifestazione di contrarietà all’imposizione di obblighi vaccinali, le stesse confermano che, nell’ambito dell’esercizio del margine di apprezzamento riconosciuto a ciascuno Stato - che in assenza in materia di una disciplina europea interamente condivisa, assume una particolare ampiezza –, ogni limitazione imposta dagli ordinamenti nazionali a coloro che non intendano vaccinarsi contro il Covid-19, va ritenuta compatibile con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo se sussiste una giustificazione oggettiva e ragionevole che ne escluda la natura di discriminazione illegittima ai sensi dell’art. 14 CEDU, esclusione che per la legislazione italiana può individuarsi nelle stesse ragioni innanzi evidenziate in riferimento alla disciplina dell’Unione.

5. L’obbligo vaccinale alla luce dei principi costituzionali. 

Il tema delle vaccinazioni e del loro obbligo, tornato al centro dell’attenzione con l’apertura della campagna vaccinale contro il virus Covid-19, è da tempo protagonista del dibattito giuridico ed è stato più volte oggetto del sindacato del Giudice delle leggi. Nel nostro ordinamento la vaccinazione obbligatoria è un istituto noto, attualmente disciplinato dal d.l. 7 giugno 2017 n. 73, conv. dalla l. 31 luglio 2017, n. 119, che prevede l’obbligo di somministrazione per dodici vaccini, come requisito per l’iscrizione alla frequenza dei corsi scolastici, imponendo ai dirigenti scolastici ed ai responsabili dei servizi educativi di ottenere, all’atto di iscrizione del minore in età scolare (compresa tra zero e sedici anni), la documentazione comprovante l’effettuazione delle vaccinazioni prescritte. L’imposizione di un obbligo vaccinale impatta la tutela del diritto alla salute e la riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32 Cost. Per ridimensionare le posizioni estremizzate di quanti paventano con enfasi l’intangibilità assoluta dei diritti individuali sarebbe sufficiente richiamare quanto affermato dalla Corte costituzionale al suo esordio nel sindacato delle leggi a tutela dei diritti; nella sentenza n. 1 del 1956 si legge infatti: “Tuttavia è da rilevare, in via generale, che la norma la quale attribuisce un diritto non escluda il regolamento dell’esercizio di esso. Una disciplina delle modalità di esercizio di un diritto, in modo che l’attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri, non sarebbe perciò da considerare di per sé violazione o negazione del diritto. E se pure si pensasse che dalla disciplina dell’esercizio può anche derivare indirettamente un certo limite al diritto stesso, bisognerebbe ricordare che il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile”. In attuazione di tale enunciato la Consulta ha più volte affermato che il diritto alla salute è “riconosciuto e garantito dall’art. 32 della Costituzione come un diritto primario e fondamentale che impone piena ed esaustiva tutela”; esso si articola in situazioni giuridiche soggettive che possono variare a seconda della natura e del tipo di protezione che l’ordinamento costituzionale assicura al bene dell’integrità e dell’equilibrio psico-fisico della persona ed in quanto diritto erga omnes, immediatamente garantito dalla Costituzione, è azionabile direttamente dai soggetti legittimati nei confronti degli autori dei comportamenti illeciti, lasciando tuttavia alla discrezionalità del legislatore la scelta degli strumenti, dei tempi e dei modi per la sua tutela. L’art. 32 ha un contenuto bidirezionale in quanto postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo, anche nel suo contenuto di libertà di cura, con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività; l’imposizione di un obbligo vaccinale è giustificato dal primo comma ai sensi del quale “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, in quanto è scientificamente provato e riconosciuto che i vaccini costituiscono una delle misure preventive più efficaci, con un rapporto rischi/benefici particolarmente elevato ed un valore etico intrinseco assai rilevante, in quanto espressione del dovere di solidarietà. L’obbligatorietà di un trattamento sanitario va poi ad incidere sul diritto all’autodeterminazione in materia di salute che viene richiamato non ai fini di legittimare il rifiuto di un trattamento sanitario, bensì per riconoscere la facoltà di esercitare in tale materia una scelta libera e consapevole; circa la definizione di “trattamento sanitario” risulta ormai approdo condiviso che nella predetta nozione vadano inserite tutte le attività finalizzate a tutelare la salute, o propedeutiche a questo scopo, e dunque di carattere diagnostico, d’indagine o preventivo. 

Quanto alla natura della riserva di legge prevista dall’art. 32, comma 2, Cost. si ritiene che mentre i trattamenti sanitari coattivi sono coperti da riserva assoluta di legge (statale), su quelli meramente obbligatori insiste una riserva di legge relativa; pacifico anche che la riserva di cui all’art. 32 Cost. non è riferita alla “legge formale”, ma può essere costituzionalmente soddisfatta mediante l’adozione di un decreto-legge, fatti salvi i requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” stabiliti dall’art. 77 Cost. nonché i limiti imposti dall’art. 32 Cost. ai trattamenti sanitari obbligatori (tutela della salute pubblica e rispetto della persona umana), come peraltro già espressamente riconosciuto dalla Consulta in relazione al d.l. n. 73 del 2017. In ordine alla legittimità costituzionale della previsione di un obbligo vaccinale rispetto al diritto all’autodeterminazione della persona, si è autorevolmente evidenziato che pur costituendo l’autodeterminazione “certamente un bene prezioso, come tale meritevole di essere protetto”, come tutti i diritti fondamentali “può andare (ed effettivamente va) incontro a limiti e vincoli dalla varia natura ed intensità, specificamente fondati sul dovere di solidarietà, e perciò giustificati in nome dei diritti degli altri o – il che è praticamente lo stesso – dell’interesse della collettività” [RUGGERI, www.dirittifondamentali.it, 2/2021]. Nella Carta costituzionale non trova cittadinanza “una visione onnivora dell’autodeterminazione” non solo in via generale, ma proprio in relazione alla salute, laddove l’art. 32 Cost espressamente ne prefigura il carattere recessivo giustificato dal bisogno di salvaguardare sia la salute degli interessati e sia (e soprattutto) quella dell’intera collettività; “il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali quello dell’autodeterminazione in funzione della realizzazione dei progetti di vita e della crescita e maturazione della personalità di ogni individuo, al contempo e in egual misura riconosce l’adempimento dei doveri di solidarietà, in difetto del quale lo stesso vivere insieme e fare appunto “comunità” resterebbe cosa vuota, senza alcun senso”; un dovere che a sua volta va coniugato con “quello di fedeltà alla Repubblica, al quale dà e dal quale riceve luce ed alimento”

5.1 Le condizioni di legittimità di un obbligo vaccinale. 

Secondo l’interpretazione da tempo consolidata della Corte costituzionale un trattamento sanitario obbligatorio è conforme all’art. 32 Cost. ove sia diretto a migliorare o preservare lo stato di salute del soggetto a cui è diretto, e non incida negativamente sulla salute del destinatario; l’imposizione di un obbligo vaccinale, previsto con legge dello Stato, che risponda ad un interesse della collettività, può dunque annoverarsi tra i trattamenti sanitari obbligatori, volti alla tutela della salute, ex art. 32 Cost., con conseguente costituzionalità delle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie finalizzate a garantire questo risultato. Per le vaccinazioni ricorrono le condizioni richieste per imporre un trattamento sanitario, ai sensi dell’art. 32, comma 2, Cost. perché la loro finalità è quella di preservare dal contagio sia chi la riceve, sia gli altri, ed in particolare coloro che non l’hanno ancora ricevuta o non possono riceverla, e perché nella normalità dei casi chi vi si sottopone sopporta al massimo conseguenze lievi e temporanee, trascurabili anche a fronte dei benefici immunitari e dei gravi rischi che, altrimenti, potrebbero insorgere. Utile ripercorrere il percorso argomentativo che ha portato la Consulta, nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, a dichiarare la legittimità costituzionale del decreto Lorenzin (d.l. n. 73 del 2017) che, intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, (nella specie un’epidemia di morbillo con 4.855 casi e 4 decessi), ha confermato l’obbligo per le quattro vaccinazioni già previste e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano offerte alla popolazione come “raccomandate”. 

Questi i punti di motivazione essenziali: - quanto alla previsione per legge: escluso che l’imposizione possa avvenire a mezzo D.P.C.M. o decreti ministeriali, non può negarsi legittimità al ricorso alla decretazione d’urgenza; sul punto la Corte ha ritenuto sufficiente a configurare i prescritti requisiti di necessità ed urgenza di carattere straordinario un contesto di copertura vaccinale insoddisfacente nel presente e incline alla criticità nel futuro rientrando “nella discrezionalità - e nella responsabilità politica - degli organi di governo apprezzare la sopraggiunta urgenza di intervenire, alla luce del nuovi dati e del fenomeni epidemiologici frattanto emersi, anche in nome del principio di precauzione che deve presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione”; - quanto alla competenza statale: con riferimento alla materia dei vaccini, nei vari profili coinvolti (“tutela della salute”, “livelli essenziali”, “profilassi internazionale”, “norme generali sull’istruzione”), sussiste una prevalenza degli interessi statali su quelli regionali e quindi una “compressione necessaria” delle attribuzioni regionali, al fine di tutelare la collettività. Il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica deve essere garantito in condizione di uguaglianza in tutto il territorio nazionale attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Tale principio vale sia per le scelte dirette a limitare o a vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, sia per quelle di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, in quanto in materia di profilassi sanitaria la necessità di prevenire la diffusione di malattie richiede l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale, al fine di garantire la c.d. “immunità di gregge". Nella sentenza n. 37 del 2021, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge della Regione Valle d’Aosta n. 11 del 2020 - già sospesa cautelarmente con ordinanza costituzionale n. 4/2021. - contenente misure di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 di minor rigore rispetto a quelle statali - la Corte ha riaffermato che rientra nella competenza esclusiva dello Stato adottare misure obbligatorie in materia di profilassi internazionale (art. 117, comma 2, lett. q), Cost): ambito che include la prevenzione o il contrasto delle malattie pandemiche, con una larga distribuzione geografica tanto da essere connotate da una diffusività che può essere reputata “internazionale” ; - quanto alla compatibilità con l’art. 32 Cost: la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria ; - quanto alla scelta tra obbligo e raccomandazione: premesso che i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici, coinvolgendo oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nella scelta delle cure sanitarie per la tutela della propria salute anche l’interesse della collettività alla protezione della salute di tutti, ed in particolare dei soggetti più deboli ed esposti, c’è spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo. Tale discrezionalità va esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia; si richiede dunque che il rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, renda quell’intervento in termini di obbligatorietà non irragionevole rispetto allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Interessante sul piano del bilanciamento dei valori anche la motivazione della sentenza n. 258 del 23 giugno 1994 ove la Consulta, nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità della normativa che aveva introdotto la vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B - impugnata per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei a mettere il vaccinando in condizioni di minore rischio possibile, ritenendosi la visita obiettiva e la raccolta dell’anamnesi non sufficienti per escludere la presenza delle molteplici patologie, anche asintomatiche, che costituiscono controindicazioni alle vaccinazioni -, ha evidenziato la necessità di procedere sempre ad un bilanciamento tra la salvaguardia del valore della salute collettiva e quello della salute dell’individuo stesso a cui sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie. Dato per acquisito che non sussiste una vaccinazione “a rischio zero”, pur nella consapevolezza dell’esistenza di accertamenti complessi che, alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, possano individuare con la maggiore precisione possibile le complicanze potenzialmente derivabili dalla vaccinazione e determinare se e quali strumenti diagnostici idonei a prevederne la concreta verificabilità siano praticabili su un piano di effettiva fattibilità, la Corte rileva che una prescrizione indiscriminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie, renderebbe di fatto praticamente impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari. In conclusione, posto che in linea di principio l’imposizione di un obbligo vaccinale trova il suo legittimo fondamento nel combinato disposto degli artt. 2 e 32 della Costituzione, le condizioni che devono essere rispettate per garantirne la legittimità possono essere così sintetizzate: 1) previsione per legge e competenza statale esclusiva; 2) idoneità a tutelare la salute del singolo e della collettività e ragionevolezza della scelta alla luce dell’evidenza scientifica. Il rispetto di tali presupposti, come meglio specificati dalla giurisprudenza costituzionale, pone un qualsiasi intervento legislativo di introduzione di un obbligo vaccinale al riparo da dubbi di legittimità costituzionale.

5.2 L’idoneità del vaccino anti Covid-19 ad una previsione di obbligatorietà. 

In riferimento ai vaccini anti Covid-19 disponibili, anche i più scettici rispetto alle sollecitazioni della comunità scientifica “istituzionale”, non possono negare che la vaccinazione completa – per ora attestata sulla somministrazione della terza dose – garantisca una copertura sensibilmente maggiore dal ricovero in ospedale, sia in reparti ordinari che in terapia intensiva, e dal decesso; secondo i rapporti dell’ISS, ed anche le rilevazioni statistiche di altri organismi nazionali ed internazionali, confermati dal confronto con i dati dei corrispondenti periodi pre-vaccinazione, la campagna vaccinale ha drasticamente diminuito le ospedalizzazioni, le complicazioni in caso di infezione e la mortalità in caso di complicazioni.

Rispetto a tali conclamati benefici sembrano recedere gli argomenti contrari fondati: 1) sulla durata temporalmente limitata dell’immunizzazione, a cui si può agevolmente ovviare con la periodicità della somministrazione, come già previsto per il vaccino antiinfluenzale, ovviamente sino al perdurare dell’emergenza pandemica; 2) sulla possibilità che anche un soggetto vaccinato contragga il virus e lo trasmetta, risultando documentato che il soggetto vaccinato sviluppa nella maggior parte dei casi una malattia asintomatica o con sintomi lievi, con riduzione proporzionale della carica virale e quindi della capacità di trasmissione del virus. Determinante poi, per la tutela della salute pubblica e della salute individuale dei soggetti più fragili, il beneficio assoluto che la riduzione della pressione sul servizio sanitario nazionale determinata dalla massiccia affluenza dei pazienti affetti da Coronavirus apporta al ritorno a standard di efficienza minimi nelle attività di prevenzione e di cura di tutte le altre patologie, di cui ci si continua ad ammalare e a morire, che, inevitabilmente, hanno subito una battura di arresto nel periodo più ingravescente dell’emergenza pandemica. Da molti si è messa in dubbio la sicurezza dei vaccini anti-Covid-19 partendo dalla considerazione che l’esigenza di pervenire nel più breve tempo possibile alla loro produzione avrebbe indotto ad autorizzarne la distribuzione ancora nella fase di sperimentazione, o sulla base di una sperimentazione insufficiente, o comunque provvisoria e rivedibile, e senza una adeguata valutazione degli effetti collaterali di medio e lungo periodo. Quanto ad efficacia e sicurezza, i vaccini fino ad ora approvati dalle rispettive autorità competenti risultano aver superato le tre fasi necessarie ai fini dell’omologazione della sperimentazione, secondo le regole tecniche, etiche e giuridiche attualmente in vigore. In Italia le autorità pubbliche competenti vanno individuate nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). In merito all’efficacia, i bollettini periodici sull’andamento dell’epidemia prodotti dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente deputato alle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con d.m. 24.10.2014), attestano con l’evidenza dei dati statistici, che la profilassi vaccinale ha efficacia preventiva sia nel contenere i sintomi della malattia, riducendo drasticamente il rischio di incorrere in sindromi gravi, sia nella trasmissione dell’infezione, incidendo sul livello di contagiosità del singolo in caso di contrazione del virus. In merito alla sicurezza, il monitoraggio costante effettuato dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), attraverso il sistema di farmacovigilanza che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi, evidenzia un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile in quanto i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi avversi correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica, con una incidenza delle reazioni negative di breve periodo molto bassa, e appena di poco superiore rispetto a quelle conosciute da anni per i vaccini ordinari, dato estremamente incoraggiante tenuto conto del ridotto periodo di osservazione. Da smentire anche che la natura sperimentale dei vaccini sarebbe desumibile dall’approvazione in tempi brevi, sulla base di una procedura di autorizzazione all’ “immissione in commercio condizionata” (cd. CMA), disciplinata dall’art. 14-bis del Regolamento CE/726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Regolamento CE/507/2006 della Commissione. Tutti i vaccini anti Covid-19 non hanno la natura di vaccini sperimentali, in quanto sono stati immessi in commercio all’esito del completamento del prescritto ciclo di sperimentazione.

La normativa UE prevede da sempre uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza, la cd CMA, concepita per consentire una autorizzazione il più rapida possibile, sempre che siano disponibili dati sufficienti a fornire un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli post-autorizzazione e valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso di una campagna di vaccinazione di massa; la presenza di queste condizioni consente di distinguere nettamente questa ipotesi da quella della c.d. “autorizzazione di emergenza”, istituto diverso che non autorizza un vaccino, bensì l’uso temporaneo di un vaccino non autorizzato. La commercializzazione di un vaccino, in base alla normativa europea vigente, prevede in primo luogo una raccomandazione da parte della Agenzia europea per i medicinali (Ema) che valuta la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino, sulla cui base la Commissione europea procede ad autorizzare la commercializzazione nel mercato dell’UE, dopo aver consultato gli Stati membri che debbono esprimersi favorevolmente a maggioranza qualificata. Tutti gli Stati membri dell’UE hanno formalmente sottoscritto la strategia sui vaccini proposta dalla Commissione, convenendo congiuntamente di applicare la procedura di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata attraverso l’Agenzia europea per i medicinali per i vaccini anti Covid-19. Non corrisponde neanche al vero che si tratti di una procedura extra ordinem, creata allo scopo di fronteggiare l’emergenza della pandemia, risultando in passato già applicata per ben trenta volte; che si tratti solo di una questione temporale è infine confermato dal fatto che il 23 agosto 2021 la Food and drug administration (FDA) ha approvato negli Usa in via definitiva il vaccino Pfizer. Ne consegue che, allo stato dell’arte, il rapporto costi/benefici risulta pendere a favore dei secondi e che, pertanto, un eventuale obbligo di vaccinazione anti Covid-19, previsto mediante una legge statale, dovrebbe superare con un elevato grado di probabilità il vaglio di costituzionalità. Verificando a titolo esemplificativo la legittimità costituzionale dell’obbligo imposto in ambito sanitario dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 (su cui si è di recente già espresso il Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021), rileva che l’obbligo è stato previsto attraverso un atto avente forza di legge, adottato dallo Stato, e quindi operante sull’intero territorio nazionale, per un periodo temporale limitato, coincidente con quello emergenziale. Sui presupposti di necessità ed urgenza di carattere straordinario richiesti ex art. 77, comma 2, Cost. basta richiamare le ragioni che hanno giustificato la dichiarazione dello stato di emergenza, nonché l’allarme causato dai dati statistici che segnalavano una certa ritrosia ad aderire alla campagna vaccinale riscontrata proprio nel personale sanitario, unitamente all’agghiacciante bilancio giornaliero di decessi nelle case di cura per pazienti anziani ed all’elevata diffusività dei contagi in ambito ospedaliero.

La conformità all’art. 32 Cost è assicurata dalle finalità espresse dalla norma, volta a tutelare sia la salute individuale che quella collettiva; l’obbligo è imposto sia “al fine di tutelare la salute pubblica”, ma anche quale requisito essenziale per lo svolgimento di determinate attività, al fine di “mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle mansioni di cura e assistenza da parte dei suddetti soggetti”; la vaccinazione diventa dunque una misura, tipizzata dalla legge, per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. ed il rifiuto di vaccinarsi incide sul profilo oggettivo dell’idoneità del soggetto all’espletamento di determinate mansioni. 

La scelta del legislatore a favore dell’obbligo, e non della raccomandazione, non appare inoltre irragionevole in quanto fondata sulle evidenze della ricerca scientifica in termini di contenimento del contagio, in combinato disposto con le specifiche mansioni svolte dai destinatari, le condizioni di fragilità dei pazienti, il rischio concreto di una mancata adesione volontaria alla campagna di vaccinazione di una parte non indifferente del personale medico. Non si profila neanche una violazione del principio di uguaglianza, che impone comunque di trattare in maniera disuguale situazioni non comparabili, rispetto alla generalità dei cittadini, risultando innegabile che siamo in presenza di una categoria di lavoratori particolarmente “sensibile” dal punto di vista dell’esposizione personale al rischio di contagio e della pericolosa capacità diffusiva in contesti di fragilità. L’imposizione dell’obbligo vaccinale, oltre che giustificata dalle peculiarietà delle mansioni, non risulta discriminatoria anche sotto altri profili, dal momento che persegue una finalità legittima, collegata alla tutela della salute e delle condizioni di lavoro, e risulta proporzionata rispetto a tale finalità, in quanto ha durata temporanea parametrata all’emergenza pandemica e non determina l’applicazione di sanzioni espulsive, ma solo un effetto di sospensione del rapporto di lavoro in misura della sua durata. Sul punto della rilevanza in ambito lavorativo delle esigenze di tutela della salute dei terzi si ricorda che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 218 del 2 giugno 1994 , a proposito della necessità di accertamenti obbligatori per infezione da HIV nell’ambito delle attività di assistenza e cura, ha affermato che, in presenza di un pericolo per la salute dei terzi, sia incostituzionale una legge che non preveda l’obbligo del lavoratore, portatore del rischio, di sottoporsi a trattamento sanitario obbligatorio, in ragione della necessità di garantire il diritto fondamentale alla salute degli altri soggetti, prevalente sulla libertà di chi decide di non curarsi.

6. L’obbligatorietà della “Certificazione verde Covid-19”. 

Con sempre maggiore vigore la scelta del legislatore si è orientata nel senso di incentivare la campagna vaccinale mediante l’estensione dell’obbligatorietà del Green pass base che, introdotto come limite all’accesso a servizi ed attività ritenute ad alto rischio di contagio, costituisce oggi un requisito oggettivo di idoneità al lavoro; quanto al più recente obbligo di super Green pass è invece evidente che una verifica di legittimità non può che essere effettuata con gli stessi parametri utilizzabili per le norme che introducono gli obblighi vaccinali. Opportuno precisare che l’obbligo di possedere e mostrare, su richiesta, il Green pass, nel duplice contenuto base o rafforzato, pur costituendo una indubbia forma di pressione operata dal legislatore per indurre i soggetti destinatari dell’obbligo alla vaccinazione, va comunque distinto dall’obbligo vaccinale, seppure l’adempimento ai due obblighi venga a coincidere per i soggetti vaccinati. Il certificato verde non è un documento sanitario, bensì una mera certificazione che attesta, secondo i rispettivi regimi quanto a presupposti di rilascio e di durata, l’avvenuta vaccinazione anti COVID-19, la guarigione da COVID-19 o l’effettuazione di un test diagnostico abilitato con esito negativo, qualificati dal legislatore come requisiti di idoneità sanitaria per l’accesso a servizi, luoghi o per lo svolgimento di diverse attività, anche lavorative. In Italia l’introduzione della CVC e la progressiva estensione della sua obbligatorietà sono state accompagnate da molte critiche. [OSSERVATORIO PER LA LEGALITÀ COSTITUZIONALE, Questione giustizia, 2021; VITALE, Giustizia insieme, 2021] Si è osservato, polemicamente, che il certificato verde digitale è stato previsto dal Regolamento (UE) 2021/953, al solo fine di agevolare la libera circolazione sicura dei cittadini nell’UE durante la pandemia da Covid-19, e dunque quale strumento di facilitazione e non di compressione di una libertà, ovvero quella di spostarsi liberamente tanto entro i confini nazionali quanto entro lo spazio europeo. Di contro le applicazioni dello strumento nel nostro ordinamento interno, la cui valenza da informativa sarebbe stata trasformata in precettiva, sono state ritenute contrarie sia all’ordinamento europeo, tanto da sollecitare il ricorso da parte dei giudici ad istituti quali disapplicazione e rinvio pregiudiziale, che al nostro ordinamento costituzionale, in quanto, pur in assenza di un obbligo vaccinale, sarebbero stati introdotti irragionevoli e non proporzionati trattamenti differenziati, che costituirebbero “l’imposizione, surrettizia e indiretta, di un obbligo vaccinale per quanti intendano circolare liberamente e/o usufruire dei suddetti servizi o spazi. Ne conseguirebbe la violazione della libertà personale, intesa quale legittimo rifiuto di un trattamento sanitario non obbligatorio per legge, o comunque di continue e quotidiane pratiche invasive e costose quali il tampone.” Quanto ai problemi di compatibilità comunitaria, ed in particolare di un paventato contrasto con l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, appare sufficiente richiamare le considerazioni già svolte in tema di obbligo vaccinale. Rileva altresì che il Green pass, in sintonia con le indicazioni europee, è stato strutturato non come un meccanismo che determina una limitazione delle libertà, bensì come uno strumento che, oltre a perseguire la meritevole finalità di incentivare e non imporre la vaccinazione, crea le condizioni in presenza delle quali determinati diritti, anche fondamentali, possano essere esercitati in sicurezza nel rispetto dei diritti altrui e del dovere di solidarietà, al fine di evitare situazioni che possano causare una diffusione del virus; non da ultimo merita sottolineare che costituisce una misura ragionevolmente idonea ad assicurare la ripresa di tutte quelle attività economiche e produttive che, in quanto espletate in condizioni di un più elevato rischio di contagiosità, avevano subito maggiori restrizioni durante le fasi iniziali dell’emergenza. La CVC, inoltre, sembra presentarsi in perfetta sintonia con la lettera del Regolamento UE 2021/953 che, nella versione rettificata dei primi di luglio riconosce il libero rifiuto di persone che “hanno scelto di non vaccinarsi” e vieta discriminazioni per tale ragione, in quanto ne è previsto il rilascio anche in assenza di vaccinazione, mediante il ricorso a misure alternative di natura diagnostica. Anche quanto alla legittimità costituzionale dell’obbligo, sembra sufficiente il rinvio alle considerazioni già svolte in merito all’obbligo vaccinale; si ricorda che l’obbligatorietà della CVC è stata introdotta mediante un atto avente forza di legge, sulla base di risultanze condivise dalla comunità scientifica, quanto all’incidenza positiva sulla salute collettiva in termini di riduzione della circolazione del virus, che trattasi di una misura di carattere temporaneo che non comporta un obbligo di cura né di vaccinazione, imposta per luoghi, attività e soggetti riconducibili a situazioni fattuali ove è particolarmente elevato il rischio di contagio. Da altri si paventa che il Green pass potrebbe comportare seri pregiudizi di carattere sistematico, sull’intera struttura dei fondamenti ordinamentali e sulla concezione dello Stato di diritto, per il rischio che misure temporanee ed eccezionali diventino prassi e consuetudini delle nostre società; che sarebbe una misura contraddittoria dal punto di vista logico-fattuale, in quanto anche chi ne è provvisto potrebbe essere contagioso, dal punto di vista sistematico, perché costituisce un modo scorretto per aggirare l’obbligo vaccinale, dal punto di vista onto-assiologico perché priva dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (circolazione, lavoro, associazione, culto ecc.) alcuni soggetti per tutelare quelli di altri.

Quanto al timore che da strumento eccezionale divenga strumento di sorveglianza sanitaria ordinario, è agevole ribattere che attualmente l’obbligo ha durata temporanea, collegata al perdurare del rischio pandemico, tale critica andrà dunque verificata nel caso in cui il legislatore optasse per una protrazione della misura oltre la durata dell’emergenza; dal punto di vista fattuale si evidenzia che risulta scientificamente dimostrato che l’avvenuta vaccinazione, guarigione o attuale negatività al test riducano sensibilmente in caso di infezione la carica virale e quindi la diffusione del virus, mentre quanto al conflitto tra diritti del singolo e diritti dei consociati pare sufficiente richiamare quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale in merito agli obblighi vaccinali e più in generale sul tema dei limiti ai diritti. Si contesta infine la legittimità dell’obbligo sul rilievo che il legislatore sarebbe ricorso a tale misura per aggirare, surrettiziamente, l’assenza dei presupposti scientifici e giuridici per l’introduzione dell’obbligo vaccinale. Oltre ai riferimenti alla presunta natura sperimentale dei vaccini, su cui si rinvia a quanto già detto, queste le ulteriori obiezioni: 1) la preventiva acquisizione del consenso informato costituirebbe una forma di esonero da responsabilità civile da parte dello Stato e un sintomo di scarsa sicurezza dei vaccini. Tale argomento risulta privo di base giuridica a fronte di un consolidato orientamento giurisprudenziale che, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, afferma che l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, con la conseguenza che l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti - rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica - pregiudicati nelle due differenti ipotesi. L’acquisizione del consenso informato prima della somministrazione del vaccino ha dunque la mera finalità di fornire al paziente una corretta informazione sul trattamento sanitario a cui lo stesso sarà sottoposto; la sua omissione giustifica di per sé una lesione risarcibile, ma il fatto che tale consenso venga reso a seguito di una corretta informazione non esclude che il sanitario, e la struttura pubblica ove questi opera, siano chiamati a rispondere, secondo i criteri e le regole probatorie civilistiche, di danni eventualmente prodotti in conseguenza della somministrazione; 2) l’esonero da responsabilità penale concesso agli operatori somministranti dall’art. 3 del d.l. 44 del 2021 sarebbe sintomatico di una scarsa sicurezza dei vaccini. Secondo la relazione illustrativa, la disposizione in questione“ è espressione dei principi generali dell’imputazione soggettiva in materia di responsabilità penale per colpa e, in un’ottica di una maggiore certezza giuridica, mira a rassicurare il personale sanitario e in genere i soggetti coinvolti nelle attività di vaccinazione”; la finalità dell’esonero è dunque quella di evitare che “ la prospettiva di incorrere in possibili responsabilità penali…”possa “ ingenerare allarme tra quanti sono chiamati a fornire il proprio contributo al buon esito della campagna di vaccinazione nazionale…” L’introduzione del cd. scudo penale ha avuto la chiara funzione simbolica di alleggerire la pressione sul personale sanitario, già stressato dalla portata eccezionale ed epocale della pandemia da Coronavirus che, per le sue peculiarità ha determinato un elevatissimo numero di decessi, dal rischio di esposizione ad un contenzioso giudiziario generato dalla campagna vaccinale, e quindi di scongiurare atteggiamenti di astensione che avrebbero potuto avere delle ricadute negative sull’efficienza e sulla rapidità della somministrazione.

Tanto è confermato dal fatto che l’esclusione della responsabilità da somministrazione del vaccino anti-Covid-19 è ancorata all’osservanza delle regole cautelari che vengono in rilievo rispetto all’attività di vaccinazione: le indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e le circolari pubblicate sul sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione. “Entrambi i requisiti sembrano valorizzare a fini esimenti il pervasivo apparato di farmacovigilanza – nel cui spettro si inserisce la vaccino-vigilanza – che sorveglia la sicurezza del prodotto immunologico al fine di assicurare la tutela della sanità pubblica, come sottintesa nel modulo autorizzativo al commercio, dal momento che proprio il suo esito incentra l’attività valutativa degli organi pubblici, con un set di controlli riguardanti l’intera “vita” del medicinale;” l’esenzione da responsabilità penale personale degli operatori è dunque giustificata dal rispetto di regole cautelari specifiche che derivano dal sistema pubblico di vigilanza in merito alla sicurezza del vaccino e non è al contrario la prova dell’assenza o dell’inadeguatezza di tali controlli; 3) lo Stato si sottrarrebbe all’obbligo di indennizzo previsto dalla l. 25 febbraio 1992, n. 210 solo in caso di danni irreversibili conseguenti a vaccinazioni obbligatorie. Tale argomento è smentito dalla lettera della legge per coloro a cui il Green pass è richiesto per l’espletamento dell’attività lavorativa, in quanto il comma 4 dell’art. 1 estende il riconoscimento dell’indennizzo alle persone che ”per motivi di lavoro” si siano sottoposte a “vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie”; ebbene difficile negare che la vaccinazione anti Covid.19 non sia necessaria per motivi di lavoro per i soggetti a cui è stato imposto l’obbligo del possesso del Green pass per continuare a svolgere la propria attività lavorativa. Per quanti la scelta della vaccinazione resta raccomandata, e non è necessitata dal lavoro, è indubbia la possibilità di una estensione in via interpretativa della giurisprudenza costituzionale. La Consulta, da ultimo nella sentenza n. 118 del 2020 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A, raccomandata e non obbligatoria, ha evidenziato che “In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli.” La Consulta ha ripetutamente affermato che la necessaria traslazione in capo alla collettività anche degli effetti dannosi che eventualmente conseguano ad una vaccinazione raccomandata si giustifica perché la ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo, non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, ma piuttosto sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale. Sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo, laddove la previsione del diritto all’indennizzo – in conseguenza di patologie in rapporto causale sia con una vaccinazione obbligatoria che raccomandata – non deriva da valutazioni negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di vaccini, ma ha la funzione di completare il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute, e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione. Ebbene mai in passato una vaccinazione non obbligatoria è stata accompagnata da una capillare ed insistente campagna di informazione e raccomandazione da parte delle autorità statali e sanitarie pubbliche come è avvenuto per la vaccinazione anti-Covid-19; quindi oltre a non sussistere alcun dubbio sull’accoglimento di una eventuale questione di legittimità costituzionale, non è azzardato affermare che vi potrebbe essere ampio spazio anche per una interpretazione conforme a Costituzione in tal senso, come già avvenuto per il riconoscimento dell’indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccinazione antipoliomielite somministrata nella vigenza della l. n. 695 del 1959, e quindi prima dell’introduzione dell’obbligo ex l. n. 51 del 1966.

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